Allegoria della Morte

Un’ Allegoria della Morte misteriosa


Ludovica Matarozzo, nostra socia e parte del direttivo, si è laureata in Valorizzazione dei Beni Culturali all’Accademia di Brera di Milano due anni fa, con la tesi Un’allegoria della morte tra Cinquecento e Seicento. Dall’analisi iconografica alla valorizzazione della tela di Giovanni Battista della Rovere
Ha deciso di dedicare la sua tesi triennale a un quadro a cui da tempo l’associazione si era interessato, ovvero la cosiddetta Allegoria della Morte di Giovanni Battista della Rovere, datato 1627.
Oggi il quadro, appartenente alla Chiesa di San Francesco d’Assisi di Torino, si trova in un laboratorio di restauro 1979. Infatti i lavori di restauro non riescono a concludersi a causa della mancanza dei fondi necessari.
Proprio per questo la nostra associazione, già nel 2014, si era mobilitata per avviare un discorso di valorizzazione del quadro e anche oggi, parte delle donazioni che riceviamo, sono indirizzate al restauro dell’Allegoria della Morte. 

Pubblichiamo qui un breve riassunto della ricerca svolta da Ludovica Matarozzo, con la speranza che l’interesse per questo quadro e per la sua storia travagliata si riaccenda.


 

Scopo iniziale dell’indagine è stato quello di analizzare dal punto di vista storico e iconografico il quadro di Giovanni Battista della Rovere, Allegoria della Morte.

Innanzitutto ci si è dedicati alla ricostruzione storica della figura dell’autore del quadro, utilizzando ricerche di studiosi precedenti e documenti presenti nell’Archivio di Stato di Torino. Su Giovanni Battista della Rovere sono scarsi i documenti e, quindi, le notizie relative alla vita. Nacque verosimilmente a Torino verso la fine del XVI secolo, all’interno di una famiglia di artisti molto importante per la città di Torino: dal 1606 il padre Gerolamo aveva ottenuto dal Duca Carlo Emanuele I il privilegio di essere l’unico, assieme alla sua famiglia, a poter riprodurre l’immagine della Sindone.
Grazie ai documenti d’archivio si sa che fece due viaggi a Roma nel 1621 e nel 1628, probabilmente compiuti per motivi di studio e in entrambi i casi fu aiutato economicamente e protetto dal Cardinale Maurizio di Savoia. Nel periodo compreso fra i due viaggi si ipotizza che l’artista fu molto attivo a Torino e proprio in questi anni, nel 1627, si colloca la produzione dell’opera Allegoria della Morte, firmata “Jo. Bapt. A Ruere Taur. Faciebat 1627”.
Infine, grazie al testamento del padre Girolamo, si è a conoscenza del fatto che Giovanni Battista nel 1634 era già morto: nel documento egli viene nominato come “il fu Gio. Batta”. Inoltre il testamento informa che il figlio aveva completamente ripagato il debito che aveva contratto con il padre per il viaggio e il suo mantenimento a Roma (circa 400 scudi), un’informazione che può essere anche letta come un indizio di un discreto successo di committenze che il pittore ebbe in vita.

Oltre ad approfondire l’identità dell’artista, si è cercato di rintracciare anche l’origine del quadro  e la sua
si è cercato di rintracciare anche l’origine del quadro e la sua committenza; purtroppo anche sul quadro Allegoria della Morte sono scarse le informazioni, per ora. Per cercare di ricostruire la storia del quadro sono state utilizzate fonti letterarie antiche e documenti d’archivio. Il quadro viene citato per la prima volta da Francesco Bartoli nelle Notizie delle pitture, sculture ed architetture del 1776. Nella descrizione della chiesa di San Francesco d’Assisi di Torino viene citato anche il quadro del Della Rovere. Bartoli afferma che il quadro si trova sul muro davanti alla porta d’entrata del Convento annesso alla chiesa e ne fa una descrizione sommaria. Il quadro sarà poi citato, senza un’aggiunta di informazioni, dal Derossi, dal Lanzi e ancora dal Ticozzi.
Dopodiché sono stati analizzati i documenti dell’archivio della Chiesa di San Francesco, conservatisi purtroppo in maniera incompleta. La chiesa di San Francesco era molto importante per la città di Torino, sia perché sede dell’archivio della città già nel XVI secolo e sia perché sede di numerose confraternite; tuttavia la maggior parte dei documenti è stata distrutta in età napoleonica e oggi rimangono i documenti relativi solo ad alcune delle confraternite esistite nella chiesa e non anteriori alla fine del Settecento. Analizzando i registri finanziari presenti nell’archivio non si è riscontrata alcuna spesa per il restauro del quadro del Della Rovere.
Inoltre, poiché la chiesa di Torino dal 1871 al 1929 è stata gestita dai Padri Oblati di Maria Vergine, parte dei documenti di San Francesco d’Assisi si trova ora nell’Archivio degli Oblati di Maria di Roma, ma anche lì i documenti presenti non sono anteriori al Settecento e non vi è alcuna notizia riguardo al quadro.

Allegoria della Morte
Allegoria della Morte, Giovanni Battista della Rovere, 1627

Perciò riguardo alla committenza e all’origine del quadro è stato possibile solo fare delle ipotesi: la prima vedrebbe come committente dell’opera una delle confraternite presenti nella chiesa; la seconda, per una serie di circostanze più convincente, vedrebbe invece come committenti i frati conventuali di San Francesco. Essi avrebbero richiesto a Giovanni Battista della Rovere un’opera, da porre nell’atrio del convento, che avrebbe svolto la funzione di monito morale per chiunque fosse entrato. Interessante notare, a questo proposito, che anche nel convento agostiniano annesso alla Chiesa di Santa Margherita e Santa Caterina di Cracovia era presente un quadro, rappresentante la stessa iconografia e avente lo stesso fine, posizionato sopra la porta della Casa Capitolare, dove i frati venivano sepolti. Tra l’altro tale ipotesi sarebbe supportata anche dallo stretto legame esistente fra la corte sabauda e i frati conventuali della chiesa di San Francesco. È possibile dunque che proprio qualche membro della corte sabauda abbia raccomandato ai frati minori conventuali il pittore Giovanni Battista della Rovere che, da tempo, lavorava con il padre presso la corte sabauda.

In seguito è stata fatta un’analisi iconografica del quadro, il cui primo passo essenziale è stato identificare la fonte iconografica alla base del dipinto. Giovanni Battista della Rovere ha infatti preso come modello per la sua opera l’incisione del 1588 dell’artista mantovano Andrea Andreani (1558-1629), che a sua volta ha preso come modello l’opera dell’orafo e incisore senese Giovanni Fortuna (1535-1611), di cui non si conosce l’originale.

In secondo luogo si è proceduto con l’analisi di ogni singolo elemento della composizione, registrando così anche eventuali differenze rispetto all’originale mantovano.
La tela è occupata da un monumento funebre, perfettamente rispondente al gusto tardo cinquecentesco, come si nota anche dalla presenza di obelischi decorati da geroglifici. Alla base del monumento vi è una tomba aperta nel quale si scorge il defunto, privo di una connotazione fisionomica precisa in grado di dare informazione sul committente. Da notare che il monumento è in stato di rovina, rappresentato con crepe e invaso da vegetazione, per ricordare all’uomo che anche le sue costruzioni più grandiose sono destinate alla distruzione.
La struttura del monumento ospita poi una serie di elementi che rimandano al motivo della morte: gli eroti intenti a spegnere le fiaccole, simbolo della fine della vita umana; le Parche intente a recidere lo stame della vita; la Ruota della Morte, all’interno della quale una serie di teschi, rappresentanti diverse tipologie di potere terreno, ricordano all’uomo il destino che lo aspetta, la morte che colpisce tutti indiscriminatamente. A rinforzare questo concetto vi è ancora la grande profusione di scheletri e il cosiddetto homo bulla, putto intento a fare bolle di sapone, simbolo della fragilità umana.
Altri elementi accompagnano questi simboli legati alla morte: Adamo ed Eva, che sottolineano il momento in cui la morte è entrata nella vita dell’uomo; il Tempo, che distrugge tutto ciò che incontra; il Giorno, con la lira, e la Notte, con la civetta e la maschera; la Vanitas, a simboleggiare la vacuità dei beni terreni.
Infine le figure allegoriche elencate sono accompagnate da una serie di sentenze, perlopiù di ispirazione biblica, in latino e greco, volte a ricordare all’uomo l’inevitabilità della morte e ad ammonirlo riguardo alla necessità di vivere una vita lontana dai peccati. Altre sentenze ancora esprimono i dubbi del cristiano riguardo alla morte che lo attende e alla fine che farà la sua anima. Molte di queste frasi appartengono a quei repertori di proverbi e sentenze in latino, di chiara ispirazione religiosa, creati nel medioevo e poi usati anche in epoche successive.

L’analisi effettuata ha permesso di proporre un’interpretazione del significato dell’Allegoria della Morte, intesa come memento mori, rappresentazione con lo scopo di ricordare all’uomo il suo inevitabile destino.
Tra l’altro, questo studio approfondito ha permesso di sottolineare come il quadro, nello stile, nel gusto, nella ricchezza iconografica, nella scelta degli elementi macabri, corrisponda appieno al senso della morte che caratterizzava la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, periodo in cui Andreani e Della Rovere operavano. Proprio questa perfetta corrispondenza al gusto dell’epoca ha fatto sì che tale iconografia avesse poi un discreto successo in tutta Europa.

Allegoria della Morte

Ludovica Matarozzo

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Gita a Firenze

Si è svolta nei giorni di sabato 28 e domenica 29 gennaio l’attesa gita a Firenze, grazie all’organizzazione e alla collaborazione dell’intero Consiglio Direttivo, e che ha visto una grande partecipazione tra soci ed amici. I partecipanti hanno avuto il privilegio di visitare, con la guida della dottoressa Jennifer Celani della locale Soprintendenza e nostra Consigliere luoghi conosciuti e ed altri più segreti della città rinascimentale per eccellenza, seguendo il fil rouge del collezionismo mediceo e della grande committenza religiosa e civica.

Nella giornata di sabato si è potuto ammirare lo scenografico museo di Orsammichele, all’interno del quale sono custodite le statue originali che ornavano le nicchie esterne della chiesa (come il gruppo bronzeo dell’Incredulità di san Tommaso del Verrocchio). Di seguito, una visita al museo delle Cappelle Medicee, con un focus sulla Sagrestia Nuova di Michelangelo e una sosta del tutto straordinaria alla cripta della chiesa di san Lorenzo ad esso annessa per vedere la suggestiva tomba di Cosimo il Vecchio de’ Medici, “Pater patriae”. Nel pomeriggio visita al nuovo Museo dell’Opera del Duomo, riaperto dopo anni di riallestimento, per ammirare i capolavori qui raccolti ma nati per il Duomo, il Battistero e il Campanile di Giotto: le porte del Paradiso del Ghiberti, la Maddalena penitente di Donatello, la Pietà Bandini opera della vecchiaia di Michelangelo e molto altro ancora.

La cena associativa si è tenuta al mitico e già associativamente conosciuta ristorante Il Latini, dove tra abbondanti piatti toscani, si è parlato di arte e delle molte iniziative culturali che aspettano l’associazione ed i soci per il 2017. Naturalmente con fiaschi di Chianti e calda amicizia.

Domenica mattina è stata trascorsa all’insegna del collezionismo: visita ai musei di Palazzo Davanzati e di Casa Martelli, due dimore storiche arredate con pezzi antichi che restituiscono il gusto di grandi collezionisti eruditi. Il gran finale è stata l’intensa visita alla Galleria degli Uffizi, dove, seguendo un itinerario di opere scelte dalla nostra guida, il gruppo si è confrontato con Giotto, Botticelli, Leonardo da Vinci, Michelangelo pittore, Raffaello, Pontormo, Bronzino, Caravaggio…

L’approfondita e puntuale organizzazione associativa, improntata all’arte ha portato i suoi frutti: i soci hanno risposto con entusiasmo e, alla fine dei due giorni, si sono dichiarati meravigliati dalle bellezze di Firenze, ringraziando ancora una volta Jennifer Celani, che ha saputo trasmetterci con professionalità la sua passione per il capoluogo toscano.

Edoardo Berruti

Ecco qualche foto della bellissima esperienza:

gioiello vittoriano 2

Approcciarsi al gioiello vittoriano, Anna Calidori

Approcciarsi al gioiello d’epoca non solo nella sua valenza estetica, ma anche nel suo aspetto storico ed antropologico, è stato l’incipit dell’incontro organizzato da “Amici dell’Arte e dell’Antiquariato” presso la galleria d’arte Le Cicale Antiquariato di Torino il 18 maggio c.a., nell’ambito del ciclo “Aperitivo d’arte”.

Un pubblico attento e curioso di incamminarsi in un percorso insolito attraverso il mondo dei monili antichi. Un mondo che – come ho avuto modo di constatare –  ha sempre esercitato un fascino immediato; quello inglese di epoca vittoriana, poi, più che mai: un’ampia gamma di gemme, materiali spesso provenienti dagli innumerevoli possedimenti coloniali, e tecniche d’esecuzione sovente sconosciute alla tradizionale arte orafa italiana.

In particolar modo, un filone – tipica espressione della gioielleria “sentimentale” ottocentesca – ha da sempre attratto la mia attenzione e di rimando quella del pubblico: i gioielli da lutto, la cosiddetta “Mourning Jewellery”.

Alla morte del Principe Consorte, Alberto di Coburgo Sassonia, la Regina Vittoria, per fare memoria della sua scomparsa, oltre che vestire rigorosamente di nero, iniziò ad indossare delle parure di gioielli anch’esse di colore nero.

I materiali erano principalmente l’onice (pietra dura di un nero brillante), lo smalto e il “jet”. Quest’ultimo rappresentava una vera e propria insolita curiosità: si trattava di lignite, cioè carbone fossile, molto leggero ed assai duttile per la sua lavorazione ad intaglio ed incisione.

Medaglioni, mani che porgono ghirlande di fiori o che si stringono, fibbie a simboleggiare i legami…sono alcuni fra i più classici elementi.

A questo è doveroso aggiungere l’ampia produzione di monili con capelli: abilmente intrecciati dalle mani delle lavoratrici ecco comparire maglie tubolari che creavano fiocchi, gale, nodi d’amore; oppure su piccoli fondelli in avorio i capelli venivano “adagiati” a comporre paesaggi, stele funebri, salici piangenti.

E’ d’obbligo ricordare che la fotografia ai tempi non esisteva come possibilità di creare un ricordo; l’alternativa poteva esser offerta solo dalla miniatura. In quest’ottica va inquadrata questa ricca produzione che vide l’utilizzo, nella seconda metà dell ‘800, di ben 50 tonnellate di capelli.

Il risultato estetico ne determinò successo tale che ben presto questo genere di gioiello “sui generis” perse la connotazione funebre per divenire uno dei “pegni d’amore” maggiormente in uso tra le fanciulle e le donne sposate in genere. Medesimo destino toccò ai gioielli in “nero.”

Va detto che Vittoria fu per il Suo popolo non solo una grande Sovrana, ma un esempio di stile e di condotta.

Diventa infine, determinante sottolineare che la gioielleria d’epoca offre uno spaccato di vita ottocentesca che ha visto nel ceto borghese, di settecentesca nascita, la sua affermazione sociale. Nell’ostentare questa conquista, la nuova classe creò una domanda di mercato tanto ampia quanto vivace che ebbe ripercussioni nei più diversi ambiti, non ultimo quello della produzione orafa.

Non posso che esser grata dell’opportunità offertami e al medesimo tempo dell’entusiasmo visibilmente colto grazie anche alla possibilità di porgere tra le mani dei partecipanti i gioielli per meglio spiegarne e coglierne le peculiarità.

Tutto ciò a testimonianza, ancora una volta, di come l’arte intesa nella sua accezione ellenica di “amore verso il bello” sia elemento imprescindibile per apprezzare la realtà delle cose e dell’individuo nella sua interezza.

Anna Calidori  – titolare della Galleria d’arte “Le Cicale Antiquariato” – corso Francia 33 –Torino

Ps. Questo è il primo intervento che l’amica ed esperta Anna Calidari ci propone…ma approfondire altri argomenti sul tema “gioielli”!

L'Arte del Giardino Pittoresco

Dall’Arte del Giardino al Giardino nell’Arte

Sfogliando le bozze di questo bel Dizionario i primi elementi che ci hanno colpito – in quanto librai antiquari – sono stati da un lato la straordinaria ricerca bibliografica svolta dalle autrici e dall’altro l’inusuale scelta dell’apparato iconografico, incentrato non tanto sulla pittura o la fotografia, ma soprattutto sulle incisioni e le litografie ottocentesche, che offrono un ampio panorama di quella che fu l’illustrazione di uso pratico della manualistica dell’Ottocento.

Una lettura più approfondita non poteva però non condurci ad alcune considerazioni sul rapporto tra le arti e i giardini. Da una parte l’importanza che ebbe la pittura nella concezione dei giardini, arricchendo simbolicamente il loro spazio attraverso una iconografia ben definita; dall’altra la fruizione della pittura come modello del giardino, attraverso le diverse estetiche riunite sotto la nozione di “picturesque”. Se l’artista nel proprio atelier doveva impegnarsi per creare delle analogie concettuali o sensuali della natura stessa, traducendole in forme, il giardino è stato un elemento basilare per questa meditazione, divenendo per l’artista giardiniere una tela da comporre e da dipingere.

Il giardino come luogo nevralgico di una ricerca sperimentale all’aperto e dal vero era già stato un’intuizione dei pittori della prima metà dell’Ottocento, ma la forza prorompente dell’impressionismo fu quella di sperimentare la pittura di paesaggi en plein air, “dove la luce non è più unica – come diceva Emile Zola – ma si verificano effetti multipli”.

Claude Monet considerava il proprio giardino a Giverny in Normandia, disegnato come un quadro, il “plus beau chef d ’œuvre” che avesse ideato, la propria utopia bucolica. In quel luogo, inseguendo l’infinita mutevolezza di una realtà condotta dalla natura, riuscì a portare la propria pittura verso l’informale. Come Sisley amava immortalare con vigore cromatico l’armonia dei giardini di Louveciennes, Renoir impiegava come quinta scenografica dei suoi ritratti il giardino selvatico su cui s’affacciava il suo atelier a Montmartre. Mentre Pissarro e Berthe Morisot inseguivano con libertà la bellezza gentile degli ordinati giardini nei villaggi intorno a Parigi.

D’altra parte già Ercole Silva, personalità di spicco della Milano illuminista e primo trattatista italiano Dell’Arte dei giardini inglesi (come recita il titolo del suo libro, che vide la luce nel 1801) definiva questi giardini “pittorici”, in riferimento all’aderenza ai tre principi della varietà, della bellezza e della novità, ossia della sorpresa. Queste caratteristiche, riguardanti la sfera filosofica ed estetica, risultavano indispensabili affinché l’impianto del giardino rispondesse ad esigenze di percezione di una sequenza di ‘quadri’ di paesaggio in grado di suscitare sempre nuove emozioni  nel fruitore. Non a caso Silva introdusse la figura dell’artista giardiniere, il quale “dovrà conoscere tutti gli effetti individuali del paesaggio, alfine di saper scegliere quelli che producono emozioni conformi alla destinazione de’ giardini, ed ordinarli e connetterli di maniera, che queste emozioni si succedano armoniosamente … lo spazio è come la tela sulla quale deve dipingere l’artista giardiniere e la prima sua ricerca riguarderà la natura di questo dato spazio”.

Le illustrazioni che Maria Luisa Reviglio della Veneria e Sabina Villa hanno scelto a corredo di questo Dizionario riproducono per lo più incisioni in rame o in acciaio, oppure litografie. Le prime quindi impressioni da una matrice metallica incisa mediante bulino o puntasecca con l’intervento dell’acido dell’acquaforte, le seconde stampe da disegni con matita grassa direttamente su lastra di pietra o su foglio di carta da riporto.

Gli oltre 130 lemmi di questo dizionario – tra i quali figurano anche voci che possono apparire inusuali, come Caso, Indecisione, Smarrimento o Illusione – sono frutto di una notevole ed originale ricerca filologica, etimologica e linguistica da parte delle autrici.

Preziosi sono i testi tecnici, per la prima volta estrapolati da opere pubblicate in Inghilterra, Francia, Germania, Belgio tra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento. Tra i titoli italiani ci piace ricordare, non fosse altro che per la loro particolarità, le Ville di delizie o siano palagi campareggi del 1726, Dei giardini e del loro effetto morale del 1804, Del giardinaggio considerato qual arte calli-tecnica del 1874 ed un quasi ignoto scritto del Pindemonte, la Dissertazione su i giardini inglesi e sul merito in ciò dell’Italia.

Il Dizionario è arricchito da una raffinatissima scelta di una o più citazioni di prose e poesie relative ad ogni singola voce, tratte dall’opera dei maggiori letterati europei – da Goethe a Rousseau, da Stendhal a Shelley, da Byron a D’Annunzio. L’usuale indice bibliografico è inaspettatamente affiancato da una sezione ragionata che fornisce le notizie biografiche degli autori citati, ricca di utilissime informazioni sui Teorici, trattatisti e progettisti.

Attraverso le immagini e i testi di questo libro, impaginato con eleganza, i giardini pittoreschi, concepiti come quadri di paesaggio e divenuti poi soggetti pittorici, ritornano a loro volta ad essere oggetto di trattazione come strumento per una moderna indagine lessicale e iconografica.

Arturo e Umberto Pregliasco

(Dalla Prefazione a Maria Luisa Reviglio della Veneria, Sabina Villa, L’Arte del Giardino Pittoresco. Dizionario illustrato, 2016, Mediares, Torino)